La fabbrica di cioccolato. Cosa nasconde ciò che mangiamo?

Ormai è un’abitué del nostro blog. Questa volta, però, la nostra amica Federica Mastrolonardo, tecnologa alimentare, ha affrontato per noi un tema molto particolare di cui si parla (purtroppo) molto poco: la filiera di produzione del cioccolato.

Si è soffermata non solo sugli aspetti tecnologici della sua produzione, ma soprattutto sulla sfera sociale legata ai Paesi di produzione, evidenziando quelle distorsioni economiche e sociali che si nascondono dietro ciò che mangiamo.

Federica Mastrolonardo

Sono fermamente convinta che tutto abbia svariate potenzialità, sta a noi non porci limiti per trovarle!!

La produzione mondiale di cioccolato non è come quella felice e in armonia di Willy Wonka. Anzi è una filiera lunga e complessa. La sua struttura è simile ad una piramide con alla base i coltivatori, che costituiscono il primo gradino di questo complicato processo, ma allo stesso tempo sono anche coloro che dal processo produttivo guadagnano di meno in termini sia economici che sociali.

Sapevi che la produzione di cioccolato, fattura a livello mondiale più di 100 miliardi di dollari l’anno? Questo dato si scontra con il guadagno di un dollaro al giorno di un coltivatore africano.

Ciò dimostra quanto noi consumatori abbiamo poca conoscenza della provenienza del cioccolato, perdendo il contatto col modo in cui il cibo è prodotto.

Che cosa succede nel sud del mondo?

La fonte di quasi tutte le fave di cacao è l’Africa occidentale, in particolare le zone del Gana e la Costa D’Avorio. Quest’ultima da sola provvede al 40% della produzione mondiale di fave di cacao. Il suo prezzo di esportazione non è deciso dalle popolazioni locali, ma è controllato dai mercati nazionali di Londra e New York.

Le tecniche di produzione del cacao sono antiche in quanto si preferisce sottopagare i braccianti piuttosto che investire in costosi macchinari. Neanche la raccolta è meccanizzata. L’unico attrezzo usato è un macete per recidere i frutti dall’albero.
I frutti contengono le fave che vengono poi fatte fermentare su foglie di banano nei villaggi dove vivono i braccianti e coltivatori. In questi villaggi quasi sempre non c’è elettricità ne acqua potabile, ma sono circondati dal profumo di cioccolato. La mano d’opera a basso costo regna ancora una volta.

Le figure fondamentali della filiera del cioccolato

Dalle piantagioni alla lavorazione finale, le fave di cacao sono vendute svariate volte a diversi intermediari e ogni volta ad un prezzo maggiorato. I piccoli coltivatori sono alla base della piramide e sono totalmente privi di potere contrattuale. Spesso sono anche costretti a dover vendere la loro materia prima ad un prezzo più basso rispetto a quello franco azienda imposto annualmente e soprattutto non possono scegliere a chi vendere.


Dopo la raccolta dei semi e la fermentazione delle fave nei villaggi, queste passano nelle mani dei “Pisteur”, ovvero coloro che si occupano del trasporto dai villaggi a delle specie di cooperative. Le infrastrutture sono ovviamente pessime e rischiano dietro ogni angolo di essere aggrediti, derubati e uccisi.

Il ruolo delle cooperative

Queste cooperative sono strutture private che ambiscono ad acquistare quante più fave possibili e sono un tassello fondamentale, in quanto forniscono il servizio di logistica e organizzazione del processo alla parte più povera della filiera. Inoltre si occupano di una preliminare lavorazione del cacao, l’essiccazione delle fave.
Le varie cooperative dello stato raccolgono la materia prima e la preparano per l’esportazione, di solito si tratta di centinaia di migliaia di tonnellate.

La figura decisiva della filiera è il Trader del cacao, costituito da un gruppo limitatissimo di aziende molto potenti. Sono gli intermediari più ricchi che comprano grandi quantità di fave al prezzo del mercato di Londra, si occupano della loro tostatura e vendono i prodotti ottenuti (pasta di cacao, burro di cacao, e cacao in polvere) a grandi produttori di cioccolato dell’Occidente. Questi Trader acquistano ¼ di tutte le fave di cacao del mondo, ma fingono di non poterne influenzare il prezzo. Tra i più importanti ricordiamo Barry Callebaut e Cargill, Olam International, che insieme producono circa il 70-80% dei semilavorati di cacao mondiali.
Una volta ottenuti i prodotti finali di cioccolato con i marchi che tutti noi conosciamo, questi arrivano nelle mani dei rivenditori al dettaglio.

Circa la metà del prezzo di una tavoletta in vendita al supermercato finisce nelle tasche del rivenditore e nella sua filiera. Purtroppo, a prescindere da quanto possa variare il suo prezzo, il coltivatore non godrà mai di alcun aumento di profitto.

La moderna schiavitù del cioccolato

Negli anni non sono mancate le indagini sulle condizioni di vita dei lavoratori nelle piantagioni, tratte di bambini venduti per le lavorazioni stagionali e tenuti in schiavitù. Queste inchieste hanno suscitato parecchie reazioni nel mondo, ma la lobby del cioccolato ha convinto gli enti che se ne stavano occupando che avrebbero messo un punto al lavoro minorile.

Le promesse non sono state mantenute infatti nel 2001 era stato firmato il Protocollo Harkin- Engel  allo scopo di sviluppare un sistema di produzione che non includesse alcun lavoro forzato e traffico minorile nella produzione del cacao. L’obiettivo stabilito non era stato rispettato né nel 2005 né nel 2010 e l’ultimo termine era stato prorogato al 2020.

Lo sdegno suscitato ha ceduto il posto alla necessità primaria per i governi africani di non perdere il loro ruolo nella filiera del cacao, anche se non sono loro a tenerne le fila ma sono solo i burattini.

È un sistema marcio ben radicato: le due nazioni sopra citate hanno una economia basata sulla produzione di fave di cacao, ma i loro popoli lavorano in condizioni non dignitose. D’altra parte però le denunce e le inchieste andrebbero a rallentare le produzioni e esportazioni e le popolazioni diventerebbero ancora più povere. Così, i 5 milioni e mezzo di coltivatori coinvolti non possono far altro che lavorare ancora di più.

Le conseguenze ambientali

La deforestazione è un’altra macchia sul curriculum della filiera del cioccolato. Molti territori in Costa d’Avorio, che un tempo ospitavano le piantagioni, sono diventati oggi grandi distese aride e improduttive.
Inoltre, anche le foreste protette sono state sfruttate. In questi luoghi il terreno è fertile e, soprattutto, gratuito perciò gli alberi originari sono stati bruciati per far spazio a nuove piantagioni di cacao. Dal 1990 la Costa d’Avorio ha perso l 85% delle sue foreste, erano 244 le aree protette e ad oggi 200 sono sparite del tutto, come riporta il rapporto del Mighty Earth.

Una soluzione possibile: il cioccolato etico

 
Fonte: Tony’s Chocolanelyhttps://tonyschocolonely.com/us/en/our-mission%20%20)

Sono ormai comuni, non solo per il cioccolato ma anche per altre derrate alimentari, i programmi di certificazione. A prescindere da quali sono e come agiscono, capiamo bene che con una filiera così lunga e contorta è molto difficile stabilire un rapporto equo e ugualitario con tutti gli attori che ne prendono parte. Questo è aggravato anche dal fatto che i primi step della filiera sono mossi in paesi non industrializzati.
Tra i vari marchi etici ricordiamo il Tony’s Chocolonely fondato da imprenditori olandesi con lo scopo di assicurare un cioccolato prodotto al 100% non da schiavi. Il loro marchio si basa su 5 principi fondamentali:

  1. Un accurato sistema di tracciabilità delle fave, in modo da rendere ben chiari la provenienza e la modalità di trasporto.
  2. I coltivatori vengono pagati un prezzo più alto in modo da garantire un reddito minimo e coerente con le esigenze di vita.
  3. Assistenza nella creazione di cooperative più forti che possano così lavorare a beneficio e vantaggio dei coltivatori
  4. Lavorano a lungo termine con i coltivatori, almeno 5 anni. In questo modo loro possono sviluppare una visione lungimirante e usare i soldi in più per migliorare le attrezzature agricole e lavorare in condizioni più dignitose.
  5. Un sistema economico virtuoso per i coltivatori li incentiva a migliorare il loro raccolto che si traduce in una miglior qualità produttiva.
    Nel 2016 Tony’s Chocolonely si è accordato con uno dei principali produttori mondiali, Barry Callebaut, per produrre cioccolato da cacao sostenibile completamente tracciabile.
    Però, affinché il sistema funzioni e cambi davvero la realtà delle cose è necessario che tutti gli attori e intermediari del processo produttivo partecipino al cambiamento.

Pensa globale, agisci locale

È il motto del cioccolatiere ivoriano Alex Emmanuel Gbaou, un vero e proprio artista che ha messo su un progetto inclusivo diventato poi un business. La sua azienda Instant Chocolate nata nel 2017 voleva riunire i coltivatori di cacao in una cooperativa e fare in modo che sul luogo stesso venisse prodotto il cioccolato pronto all’uso. Alex non ha messo a disposizione solo risorse economiche, ma ha dato alle popolazioni locali i mezzi per poter diventare parte del sistema. Ha trasmesso loro le sue conoscenze sulla lavorazione del cioccolato, misure igieniche e tecniche di trasformazione e in uno dei villaggi che fanno parte del progetto ci sono circa 200 donne lavoratrici e, speriamo, future imprenditrici.

Inoltre, il cioccolato a suo marchio ha un packaging che, personalmente, definirei doverosamente rispettoso. Le tavolette infatti sono “vestite” dei tessuti tipici etnici africani, un modo per ricordare a tutti la sua vera origine.
Insomma, il suo cioccolato sa anche un po’ di rivoluzione. I frutti rotti sono originariamente bianchi, ma poi con l’essiccazione e la fermentazione diventano scuri.

Mi piace pensare che sia un modo della natura per portare rispetto alle popolazioni africane e al loro lavoro.

Eri a conoscenza di quanto ti ho raccontato? Tu che tipo di cioccolata consumi?

Spero davvero che da oggi in poi potrai essere più attento e nel momento in cui dovrai acquistare della cioccolata, la tua scelta ricadrà su prodotti equi e solidali.